I BENI COMUNI LOCALI: Cosa sono, quali sono. Ipotesi e Proposte.

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I BENI COMUNI LOCALI: Cosa sono, quali sono. Ipotesi e Proposte.
08 Luglio 2013

I BENI COMUNI LOCALI: Cosa sono, quali sono. Ipotesi e Proposte.

I BENI COMUNI LOCALI: Cosa sono, quali sono. Ipotesi e Proposte.

Sono beni comuni quei beni che hanno come funzione precipua il soddisfacimento dei diritti fondamentali dell’individuo. Nel disegno di legge delega al Governo per la modifica del Capo II del Titolo I del Libro III del Codice Civile del 14 giugno 2

Sono beni comuni quei beni che hanno come funzione precipua il soddisfacimento dei diritti fondamentali dell’individuo.

Nel disegno di legge delega al Governo per la modifica del Capo II del Titolo I del Libro III del Codice Civile del 14 giugno 2007 ( Commissione Rodotà),  venivano indicati quali beni comuni: “Sono beni comuni, tra gli altri: i fiumi i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’ aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate”.

Interessante è la classificazione dei beni comuni fatta dal Mattei : “Beni comuni naturali (ambiente, acqua, aria pura) e beni comuni sociali (beni culturali,memoria storica,sapere), o ancora beni comuni materiali (piazze, giardini publici) o immateriali (spazio comune del web)”

Nella delibera di Giunta n. 820 del 21 luglio del 2011 del Comune di Napoli, che verrà in seguito esaminata, vengono indicati quali beni comuni. “quei beni funzionali alla effettiva tutela dei diritti fondamentali, come beni di appartenenza collettiva e sociale quali sono l’acqua, il lavoro, i servizi pubblici, le scuole, gli asili, le università, il patrimonio culturale e naturale, il territorio, le aree verdi, le spiagge, e tutti quei beni e servizi che appartengono alla comunità dei cittadini e dei quali, dunque, alla comunità non può essere sottratto né il godimento, né la possibilità di partecipare al loro governo e alla loro gestione”.

Il carattere distintivo di tali beni è quello di essere al completo servizio dell’umanità, con la conseguenza che con riferimento a questi non si può parlare di proprietà; non appartengono a nessuno perché sono di tutti gli uomini.

Significativa al riguardo è la definizione data dal Lucarelli: “il soggetto titolare del diritto di fruire dei beni comuni è l’umanità nel suo intero, come insieme di individui uguali” .

I beni comuni, pertanto, sono al di fuori del mercato; non possono essere oggetto di rapporti di scambio, non sono soggetti a prezzo per il loro utilizzo.

Assunto questo criticato dalle teorie neoliberiste degli anni 80

Altro corollario alla nozione del bene comune è che quando questo ad esempio l’acqua, è gestito da un soggetto di diritto pubblico, quale ad esempio una azienda pubblica, tale gestione deve avvenire non nella qualità di proprietario del bene ma unicamente nell’ottica della funzione precipua del bene stesso che è quella di soddisfacimento dei diritti fondamentali dell’individuo; Il gestore del servizio è “da intendersi quale garante e tutore dl bene in una prospettiva di effettivo soddisfacimento dei diritti fondamentali” .

Alla fine degli anni sessanta, si apre il dibattito, all’interno della sociologia economica, sulle soluzioni da prendere relativamente al problema dell’eccessivo sfruttamento delle risorse comuni dovuto alla crescita incontrollata della popolazione.

Tutto parte dal famoso articolo del prof. Garrett James Hardin pubblicato sulla rivista “Science” n. 165 del 1968, articolo intitolato, per l’appunto, " La Tragedia dei beni comuni".

Hardin partiva dall’esempio della la pesca in acque internazionali, dove il bene comune (il pescato) è messo a disposizione di tutti i pescatori, i quali però, seguendo i propri interessi personali, senza incorrere nella possibilità di essere monitorati o senza un chiaro diritto di proprietà che venga fatto rispettare (moral hazard), sfruttano eccessivamente la risorsa

Secondo Hardin gli utilizzatori di una risorsa comune sono intrappolati in un dilemma tra interesse individuale e utilità collettiva, ciò che Hardin chiamava la "tragedia della libertà in una proprietà comune", dilemma da cui è possibile uscire solo con l'intervento di un'autorità esterna; lo Stato.

All'ipotesi statalista di Hardin si contrappose la soluzione opposta della privatizzazione delle risorse comuni, soluzione, questa, fornita dalla dottrina economica neoliberista degli anni ottanta che aveva tra i suoi maggiori fautori sul piano politico Margaret Thatcher e Ronald Reagan; anche i beni comuni sono beni di mercato e per tal ragione anche per essi vale il principio per cui un bene è solo di chi può pagarselo.

Sia l’idea statalista che quella neolibersta della privatizzazione furono criticate dal premio nobel dell’economia Elinor Ostrom; emblematico al riguardo è il suo lavoro del 1990 intitolato "Governing the Commons".

In esso viene rilevato che, tanto la gestione autoritaria-centralizzata dai beni comuni quanto la loro privatizzazione, benché le entrambi soluzioni sono utilizzabili in determinate situazioni, non costituiscono, di per se, la soluzione né sono prive esse stesse di problemi rilevanti.

Infatti, partendo dallo studio di casi empirici la Ostrom ha posto in discussione soprattutto l'idea che esistano dei modelli applicabili universalmente.

Al contrario, in molti casi, storici e contemporanei, le singole comunità sono riuscite a evitare conflitti improduttivi e a raggiungere accordi su una utilizzazione sostenibile nel tempo delle risorse comuni, da qui l’idea che soltanto tramite l’autogoverno delle comunità può aversi una corretta gestione dei beni comuni.

La Olstrom fa l’esempio, nell’ambito della realtà nordamericana, della complessità che presenta l’autogoverno di sistemi di irrigazione: spesso lunghi decine e decine di chilometri, che attraverso territori assai eterogenei e richiedono una costante manutenzione e una comune moderazione nel loro utilizzo. Basta infatti che qualcuno a monte dissipi l’acqua, non faccia manutenzione ai canali o permetta che vengano riversate sostanze inquinanti, che chiunque si ritrova a valle ne subisce un danno inestimabile.

A fronte delle difficoltà di accordo e coordinamento poste da sistemi così complessi, in cui l’azione o l’inazione di ciascun agricoltore coinvolto è determinante, spesso sorge la tentazione di regolarne il funzionamento privatizzando la risorsa, oppure attraverso un’autorità politica, locale o nazionale, di cui si presuppone la capacità di sorvegliare, regolare i costi e i ricavi della gestione del canale e di sanzionare eventuali comportamenti degli agricoltori.

Ma, osserva la Olstrom, attraverso analisi empiriche da lei effettuate, che i risultati migliori si ottengono attraverso l’autogoverno degli stessi contadini, che sanno darsi regole capaci di garantire una gestione particolarmente robusta, cioè efficace e duratura.

Nella categoria dei beni comuni universali è ravvisabile anche la categoria dei beni comuni locali; categoria individuata nell’opera “Crisi della democrazia rappresentativa e beni comuni – Per una rivoluzione civica” di Giuseppe Sessa e Francesco Falco.

Questi beni soddisfano bisogni fondamentali non comuni universalmente a tutti gli abitanti della terra ma soltanto di una comunità di soggetti, tipico è il caso del diritto dei cittadini alla gestione urbanistica del loro territorio.

E su questo bene locale fondamentale che noi poniamo la nostra attenzione.

Nel nostro ordinamento urbanistico mancano i strumenti attraverso cui realizzare una partecipazione diretta dei cittadini alla gestione urbanistica del territorio.

E’ soltanto previsto dall’art. 22 della legge n. 22 del 1999 che una volta approvato dal Consiglio Comunale il piano urbanistico o la sua variante, gli interessati, cioè vale a dire i proprietari di immobili compresi nel piano e coloro che possono vantare un interesse personale diretto e attuale, possano fare osservazioni ed opposizioni entro trenta giorni dalla pubblicazione dello stesso all’albo pretorio.

Su tali osservazioni ed opposizioni decide lo stesso Consiglio Comunale con la delibera di approvazione del piano o con apposita delibera la quale potrà apportare varianti.

Pertanto occorre fare una duplice serie di considerazioni dalle quali emerge in maniera lampante che i cittadini non hanno nessun potere partecipativo nella gestione urbanistica del loro territorio rimanendo questa nella completa discrezione dell’organo politico comunale.

Infatti, innanzitutto, soltanto i soggetti portatori di interesse legittimo possono presentare osservazioni o fare opposizioni al piano o alla sua variante e non tutti i cittadini residenti.

Inoltre su tali osservazioni e opposizioni decide lo stesso Consiglio Comunale, quindi il potere decisorio in campo urbanistico rimane saldamente ancorato alla politica locale.

Ciò che occorre fare al fine di garantire una piena partecipazione delle popolazioni locali alla gestione urbanistica del loro territorio è guardare all’esperienza inglese.

Infatti, come visto, il Localism Act del 2011 attribuisce ai parish council la pianificazione urbanistica del territorio.

In tale atto normativo è previsto che i parish council redigano piani urbanistici relativi alla loro zona di competenza, individuando le aree verdi, con l’indicazione di parchi e giardini, e quelle edificabili e per quest’ultime fissando anche il numero massimo di licenze edilizie da concedere.

Tali piani sono sottoposti per la loro approvazione a referendum della popolazione residente.

Prima di calare questa realtà giuridica anglosassone nella realtà giuridica italiana occorre fare una serie di precisazioni.

Infatti, come detto, i parish council, nascono nel diritto pubblico inglese a partire dal famoso Local Government Act del 1894, sono autorità locali che sono responsabili della gestione di una serie di servizi nei confronti di una civil parish cioè un quartiere di una grande città, cd. neighbourhood, di una small town e di un village.

I componenti di tali autorità solo eletti dalla popolazione che amministrano trai propri membri e durano in carica quattro anni.

I servizi che essi svolgono nei confronti della comunità della civil parish sono stati individuati sia dall’Atto del 1894 che li ha istituiti ma anche dai successivi Local Government Act del 1972 e dal Local Government and Rating Act del 1997 e da ultimo da quello oggetto del nostro studio del 2011 che ha attribuito una competenza di notevole valore nell’ambito della tematica dei beni comuni: la pianificazione territoriale.

Tra i tanti servizi che svolgono in favore delle loro comunità sono da segnalare: la manutenzione dei cimiteri, la pulizia degli stagni, creazione e manutenzione di parchi e giardini, il sostegno ad iniziative artistiche e culturali, la manutenzione delle strade e delle banchine pedonali, la gestione di parcheggi, il noleggio di biciclette,la manutenzione delle fognature e quella molto British di manutenzione degli orologi pubblici

Nella realtà italiana non è ravvisabile un organismo pubblico di tal guisa.

E’ ravvisabile solamente un paragone con i comitati di quartiere ma quest’ultimi nell’ambito del nostro ordinamento non sono persone giuridiche pubbliche come i parish council nell’ordinamento giuridico inglese, ne tantomeno hanno gli stessi poteri dei parish inglesi.

Però, per poter realizzare in Italia il progetto di un diritto urbanistico partecipativo come quello inglese occorre partire necessariamente dai comitati di quartiere nostrani.

Volutamente si è sottaciuto circa le circoscrizioni di decentramento comunale che sono previste dall’art. 17 del Testo Unico degli Enti locali, le quali esercitano le funzioni delegategli dal Comune centrale, in quanto i loro componenti non sono espressione diretta dei cittadini del quartiere che amministrano, come il caso dei parish inglesi, ma espressione mediata dalla politica locale.

La piena partecipazione dei cittadini ala gestione urbanistica del territorio, si realizza solo con un ente direttamente legato alla cittadinanza; il comitato di quartiere.

Per realizzare questo, pertanto, occorre dare rilevanza giuridica pubblicistica ai comitati di quartiere.

I loro componenti, inoltre, dovranno essere eletti dalla popolazione del quartiere tra i propri membri.

Una volta realizzato normativamente questo, occorre una radicale riforma del diritto urbanistico in tal senso: i piani particolareggianti e le loro varianti devono essere concordati tra l’Ente comunale e i comitati di quartiere territorialmente interessati con prevalenza della volontà del comitato in caso di eventuale disaccordo; una volta approvato il piano o la variante concordata questa per divenire efficace deve essere approvata con referendum della popolazione residente.

Tale bene comune locale avrà bisogno di una tutela processuale qualora il potere politico locale decidesse di calpestarlo; piani urbanistici e loro varianti non concordate con i comitati di quartiere, mancata approvazione del piano e della variante con referendum.

Per quel concerne tali beni; la tutela processuale è legata alla titolarità del bene.

Nel caso dei beni comuni locali la titolarità è legata ad una comunità locale che risiede in un determinato territorio; tipico il caso del diritto dei cittadini residenti alla gestione del urbanistica del loro territorio.

Quindi legittimati ad agire, nel caso del “bene comune urbanistico” , saranno i comitati di quartiere, persone giuridiche pubbliche , ma anche tutti cittadini residenti in un territorio o di un area dello stesso, che si vedranno lesi nel loro diritto alla gestione urbanistica del loro territorio , ma anche, ed è questo è il punto di contatto amministrativo con gli interessi diffusi, le associazioni di cittadini che hanno come fine statutario la tutela di tale bene comune.

Per quel concerne il Giudice competente per tale tutela non può che aversi la competenza del Giudice Amministrativo; ciò per due ragioni.

La prima per la loro stretta connessione con gli interessi diffusi.

La seconda perché il rispetto e la salvaguardia dei beni comuni locali è nelle mani della Pubblica Amministrazione; si veda il caso del “bene comune urbanistico”.

Il nostro ordinamento ha in se lo strumento per l’azionabilità della tutela del bene comune locale nei confronti della Pubblica Amministrazione; l’azione ex D.Lgs. n. 198 del 20.12.2009.

Infatti, come detto, il 15 gennaio 2010 è entrato in vigore il D.Lgs. n. 198 del 20.12.2009 recante “Attuazione dell’art. 4 della legge 4 marzo 2009 n. 15 in materia di ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici” il quale introduce la possibilità per i cittadini, le associazioni e i comitati di cittadini o utenti, di fare ricorso in caso di inefficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici.

Il provvedimento attua i principi contenuti nell’articolo 4 c. 2, lett. L) della Legge delega 4 marzo 2009 n. 15 recante “Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e alla Corte dei Conti”.

Per quanto riguarda la legittimazione ad agire, è prevista la proponibilità dell’azione, a mezzo ricorso al Giudice Amministrativo sia da parte dei singoli cittadini, titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di cittadini ed utenti, lesi dall’inefficienza dell’azione amministrativa, con possibilità di intervento di altri soggetti che si trovino nella medesima situazione giuridica del ricorrente, sia da parte di associazioni o comitati a tutela degli interessi dei propri associati.

Pertanto l’oggetto di tale azione è il corretto svolgimento della funzione amministrativa o la corretta erogazione di un servizio; “…se derivi una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi, dalla violazione di termini o dalla mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento, dalla violazione degli obblighi contenuti nelle carte di servizi ovvero dalla violazione di standard qualitativi ed economici stabiliti per i concessionari di servizi pubblici, dalle autorità preposte alla regolazione ed al controllo del settore e, per le pubbliche amministrazioni”

Non si tratta, quindi, di tutelare o, almeno, non di tutelare direttamente ed immediatamente, l’interesse giuridicamente rilevante del singolo, quale il diritto soggettivo o l’interesse legittimo, bensì di intervenire per via giudiziale su eventuali e accertate disfunzioni di carattere organizzativo della pubblica amministrazione in vista, quindi del perseguimento della finalità di tutela dell’interesse generale, del bene comune, consistente nel buon andamento della Pubblica Amministrazione.

Considerando i dati peculiari che un’azione nei confronti della Pubblica Amministrazione a tutela del bene comune locale deve avere, lo schema dell’azione ex D.Lgs. n. 198 del 2009 ben si adatta ad essere un punto di partenza per la tutela del bene comune locale apportando però una serie di correttivi.

Innanzitutto la legittimazione attiva dovrà spettare, ad esempio nel caso del bene comune locale urbanistico, bene locale per eccellenza, ai comitati di quartiere e a tutti i cittadini residenti in un territorio o di un area dello stesso, ma anche, come detto, alle associazioni di cittadini che hanno come fine statutario la tutela di tale bene comune o del bene comune in tutte le sue esplicazioni.

L’oggetto dell’azione non sarà il ripristino dell’efficienza della pubblica amministrazione ma la tutela del bene comune locale leso dall’azione amministrativa; piani urbanistici e loro varianti non concordate con i comitati di quartiere, mancata approvazione del piano e della variante con referendum.

Tale tutela una volta accertata la lesione è quella già prevista dall’azione ex D.Lgs. n. 198 del 2009; ordinare alla pubblica amministrazione di porre rimedio a tale mala gestio del territorio entro un congruo termine.

 

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